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venerdì 19 gennaio 2018

Per una Italia nonviolenta: proposte per politiche attive di pace e disarmo

Di fronte a quella che viene definita la “terza guerra mondiale diffusa”, all’espansione del terrorismo internazionale, all’ondata di profughi che scappano dai Paesi devastai, non basta più il principio costituzionale del “ripudio della guerra”. Necessario, rispetto alla denuncia delle missioni di guerra in cui l’Italia è ancora ingaggiata, ma non sufficiente rispetto alla corsa agli armamenti degli ultimi quindici anni. È tempo, ormai, di cambiare le coordinate, a partire dalla conoscenza dei dati reali, e impostare politiche attive di pace e disarmo.

Analisi dei dati
I dati reali (analizzati e diffusi dall'Osservatorio italiano sulle spese militari italiane) ci dicono che negli ultimi 10 anni di recessione e di tagli in tutti i comparti sociali, la spesa pubblica militare italiana è invece aumentata del +21% con una crescita costante, che continua tuttora. Se nel 2017 la spesa militare complessiva si è attestata sulla cifra enorme di 24 miliardi di euro, corrispondente a 64 milioni al giorno, la Legge di Bilancio per il 2018 prevede un miliardo in più (corrispondente al +4%) per giungere a 25 miliardi di euro, pari all’1,42% del PIL (più della Germania, ferma all’1,2%). Questo significa, per esempio, che siamo l’ultimo Paese europeo per spesa pubblica per l’istruzione, per la cultura e per numero di laureati, mentre siamo il primo Paese per cacciabombardieri F35 acquistati, per numero di portaerei, per tasso di incremento della spesa militare. Ed anche per numero di testate nucleari USA in Europa.

Economia di guerra
Una parte consistente di queste risorse, pari a 3,5 miliardi sul 2018 (+5% rispetto al 2017), proviene dal Ministero per lo Sviluppo Economico per l’acquisizione di nuovi armamenti “made in Italy”. Cifra pari al 71% del budget totale del MiSE per la competitività e lo sviluppo delle imprese italiane. Ciò significa che lo sviluppo industriale italiano è centrato in larghissima parte sull’industria bellica. Se a questo si aggiunge che Leonardo-Finmeccanica (azienda di cui il governo italiano è azionista di maggioranza) ha completamente dismesso la tecnologia civile a vantaggio di quella militare, che esporta in tutto il mondo; se si aggiunge anche che le autorizzazioni all’export bellico italiano negli ultimi due anni sono sestuplicati, passando da 2,1 a 14,6 miliardi di euro, anche in pesante violazione della legge 185/90 sul commercio delle armi, che non consente la vendita ai regimi ed ai Paesi in guerra (come l’Arabia saudita che scarica sullo Yemen i missili prodotti in Sardegna), ne deriva che l’economia profonda del nostro Paese è sempre di più fondata sul business di guerra.


Svuotare gli arsenali per colmare i granai
Dunque, se non si aggredisce il tabù dell’economia di guerra non è possibile impostare una sostenibile economia di pace, ossia civile e sociale. Non si può rovesciare il tavolo delle diseguaglianze se non si rovescia – contemporaneamente – il tavolo della guerra, liberandone le risorse imprigionate. “Svuotare gli arsenali per colmare i granai”, avrebbe detto con una metafora efficace l’indimenticato Presidente Pertini.

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