Di fronte a quella che viene definita la “terza guerra
mondiale diffusa”, all’espansione del terrorismo internazionale, all’ondata di
profughi che scappano dai Paesi devastai, non basta più il principio
costituzionale del “ripudio della guerra”. Necessario, rispetto alla denuncia
delle missioni di guerra in cui l’Italia è ancora ingaggiata, ma non
sufficiente rispetto alla corsa agli armamenti degli ultimi quindici anni. È tempo, ormai, di cambiare le coordinate, a partire dalla conoscenza dei dati
reali, e impostare politiche attive di pace e disarmo.
Analisi dei dati
I dati reali (analizzati e diffusi dall'Osservatorio italiano sulle spese
militari italiane) ci dicono che negli ultimi 10 anni di recessione e di tagli
in tutti i comparti sociali, la spesa pubblica militare italiana è invece
aumentata del +21% con una crescita costante, che continua tuttora. Se nel 2017
la spesa militare complessiva si è attestata sulla cifra enorme di 24 miliardi
di euro, corrispondente a 64 milioni al giorno, la Legge di Bilancio per il
2018 prevede un miliardo in più (corrispondente al +4%) per giungere a 25
miliardi di euro, pari all’1,42% del PIL (più della Germania, ferma all’1,2%).
Questo significa, per esempio, che siamo l’ultimo Paese europeo per spesa
pubblica per l’istruzione, per la cultura e per numero di laureati, mentre
siamo il primo Paese per cacciabombardieri F35 acquistati, per numero di
portaerei, per tasso di incremento della spesa militare. Ed anche per numero di
testate nucleari USA in Europa.
Economia di guerra
Una parte consistente di queste risorse, pari a 3,5 miliardi sul 2018 (+5%
rispetto al 2017), proviene dal Ministero per lo Sviluppo Economico per
l’acquisizione di nuovi armamenti “made in Italy”. Cifra pari al 71% del budget
totale del MiSE per la competitività e lo sviluppo delle imprese italiane. Ciò
significa che lo sviluppo industriale italiano è centrato in larghissima parte
sull’industria bellica. Se a questo si aggiunge che Leonardo-Finmeccanica
(azienda di cui il governo italiano è azionista di maggioranza) ha
completamente dismesso la tecnologia civile a vantaggio di quella militare, che
esporta in tutto il mondo; se si aggiunge anche che le autorizzazioni
all’export bellico italiano negli ultimi due anni sono sestuplicati, passando
da 2,1 a 14,6 miliardi di euro, anche in pesante violazione della legge 185/90
sul commercio delle armi, che non consente la vendita ai regimi ed ai Paesi in
guerra (come l’Arabia saudita che scarica sullo Yemen i missili prodotti in
Sardegna), ne deriva che l’economia profonda del nostro Paese è sempre di più
fondata sul business di guerra.
Svuotare gli arsenali per colmare i granai
Dunque, se non si aggredisce il tabù dell’economia di guerra non è possibile
impostare una sostenibile economia di pace, ossia civile e sociale. Non si può
rovesciare il tavolo delle diseguaglianze se non si rovescia –
contemporaneamente – il tavolo della guerra, liberandone le risorse
imprigionate. “Svuotare gli arsenali per colmare i granai”, avrebbe detto con
una metafora efficace l’indimenticato Presidente Pertini.
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