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martedì 30 gennaio 2018

Le liste di Liberi e Uguali: sinistra e civismo, rinnovamento e competenza

Siamo ormai arrivati al momento della presentazione delle liste elettorali. Il nostro cammino è iniziato il 3 dicembre con la prima grande assemblea nazionale: costruire un progetto forte e credibile non è semplice, ma, con passione impegno e competenza, stiamo crescendo di giorno in giorno. Crediamo che le nostre liste rappresentino al meglio ciò che vogliamo essere. Abbiamo un’anima di sinistra e apriamo le porte a personalità impegnate nel sociale, in piccole e grandi associazioni, in movimenti civici; ci sono amministratori locali capaci e radicati sul territorio, esponenti politici che portano la loro esperienza a servizio di questa sfida e giovani alla loro prima esperienza. Oltre il 70% dei capilista e oltre l’80% dei candidati è espressione del territorio. Meno del 50% dei parlamentari uscenti è stato ricandidato. A differenza d’altri abbiamo fatto una scelta di serietà nessun consigliere regionale, sindaco, parlamentare europeo è candidato nei collegi plurinominali. Sono i numeri di un progetto che vuole realizzare un profondo e duraturo cambiamento, anche nel modo di fare politica. Abbiamo inoltre istituito una Commissione di Garanti con il compito di esaminare ciascuna candidatura secondo criteri di trasparenza e onestà più rigorosi di quelli previsti dalla legge e da qualunque altra forza politica.
Liberi e Uguali si presenta alle elezioni del 4 marzo con l’ambizione di portare in Parlamento uomini e donne capaci di rappresentare davvero i bisogni e le speranze dei cittadini, nessuno escluso. Insieme affronteremo queste settimane che si separano dal voto, insieme realizzeremo la nostra visione di una Italia per i molti e non per i pochi.
I Candidati  per la nostra provincia sono: 
Pina Muscariello al collegio Uninominale della Camera
Roberto Leggero al collegio Uninominale del Senato

venerdì 19 gennaio 2018

Per una Italia nonviolenta: proposte per politiche attive di pace e disarmo

Di fronte a quella che viene definita la “terza guerra mondiale diffusa”, all’espansione del terrorismo internazionale, all’ondata di profughi che scappano dai Paesi devastai, non basta più il principio costituzionale del “ripudio della guerra”. Necessario, rispetto alla denuncia delle missioni di guerra in cui l’Italia è ancora ingaggiata, ma non sufficiente rispetto alla corsa agli armamenti degli ultimi quindici anni. È tempo, ormai, di cambiare le coordinate, a partire dalla conoscenza dei dati reali, e impostare politiche attive di pace e disarmo.

Analisi dei dati
I dati reali (analizzati e diffusi dall'Osservatorio italiano sulle spese militari italiane) ci dicono che negli ultimi 10 anni di recessione e di tagli in tutti i comparti sociali, la spesa pubblica militare italiana è invece aumentata del +21% con una crescita costante, che continua tuttora. Se nel 2017 la spesa militare complessiva si è attestata sulla cifra enorme di 24 miliardi di euro, corrispondente a 64 milioni al giorno, la Legge di Bilancio per il 2018 prevede un miliardo in più (corrispondente al +4%) per giungere a 25 miliardi di euro, pari all’1,42% del PIL (più della Germania, ferma all’1,2%). Questo significa, per esempio, che siamo l’ultimo Paese europeo per spesa pubblica per l’istruzione, per la cultura e per numero di laureati, mentre siamo il primo Paese per cacciabombardieri F35 acquistati, per numero di portaerei, per tasso di incremento della spesa militare. Ed anche per numero di testate nucleari USA in Europa.

Economia di guerra
Una parte consistente di queste risorse, pari a 3,5 miliardi sul 2018 (+5% rispetto al 2017), proviene dal Ministero per lo Sviluppo Economico per l’acquisizione di nuovi armamenti “made in Italy”. Cifra pari al 71% del budget totale del MiSE per la competitività e lo sviluppo delle imprese italiane. Ciò significa che lo sviluppo industriale italiano è centrato in larghissima parte sull’industria bellica. Se a questo si aggiunge che Leonardo-Finmeccanica (azienda di cui il governo italiano è azionista di maggioranza) ha completamente dismesso la tecnologia civile a vantaggio di quella militare, che esporta in tutto il mondo; se si aggiunge anche che le autorizzazioni all’export bellico italiano negli ultimi due anni sono sestuplicati, passando da 2,1 a 14,6 miliardi di euro, anche in pesante violazione della legge 185/90 sul commercio delle armi, che non consente la vendita ai regimi ed ai Paesi in guerra (come l’Arabia saudita che scarica sullo Yemen i missili prodotti in Sardegna), ne deriva che l’economia profonda del nostro Paese è sempre di più fondata sul business di guerra.


Svuotare gli arsenali per colmare i granai
Dunque, se non si aggredisce il tabù dell’economia di guerra non è possibile impostare una sostenibile economia di pace, ossia civile e sociale. Non si può rovesciare il tavolo delle diseguaglianze se non si rovescia – contemporaneamente – il tavolo della guerra, liberandone le risorse imprigionate. “Svuotare gli arsenali per colmare i granai”, avrebbe detto con una metafora efficace l’indimenticato Presidente Pertini.

giovedì 18 gennaio 2018

No all’intervento militare in Niger

Ieri, 17 gennaio, a Montecitorio Liberi e Uguali ha presentato una risoluzione per negare l’autorizzazione alla missione militare italiana in Niger.
A Camere sciolte, il Parlamento è stato chiamato a pronunciarsi sull’approvazione della partecipazione a missioni militari internazionali proposte in una Delibera del Consiglio dei ministri del 27 dicembre con cui il Governo Italiano apre a nuovi scenari di intervento per le nostre truppe.
Questo rinnovato interventismo militare è strettamente connesso al contrasto della migrazione nella sua dimensione esterna: per le missioni in Libia e Niger è previsto un budget, da gennaio a settembre 2018, di 65 milioni di euro su un totale di 83 milioni per le nuove missioni. A seguire la Tunisia, altro paese d’interesse geostrategico nello scacchiere delle migrazioni.
La missione in Libia prevede uno spiegamento di 400 uomini e 130 mezzi terrestri, oltre a quelli aerei e navali già autorizzati nell’ambito delle unità del dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro e Ippocrate.
Per un totale di 35 milioni di euro per i prossimi 9 mesi, l’Italia propone una missione con dichiarati obbiettivi di contrasto alla migrazione con attività di formazione, addestramento e supporto delle autorità locali. Si continua a finanziare la Guardia Costiera libica perché intercetti i migranti riportandoli nell’inferno dei centri di detenzione da cui sono fuggiti. Una decisione che non tiene conto di quanto ribadito anche dal Consiglio di Sicurezza Onu, che già nel giugno 2017 aveva rilevato pericolosi legami tra i membri della Guardia Costiera Libica e le milizie che gestiscono le partenze sulla pelle dei migranti. La missione in Niger, in cui sono previsti 470 uomini, 130 mezzi terrestri e 2 aeromobili – per un budget totale di 30 milioni in 9 mesi, 50 in un anno – alla frontiera tra Niger e Libia sovrappone gli obbiettivi di contrasto alla migrazione a quelli di lotta al terrorismo.
Alle nostre forze spetterebbe il controllo della frontiera Nord del paese con una funzione di deterrenza al transito dei migranti: non si ridurrebbe quindi il numero dei migranti verso la Libia, ma, obbligandoli a uscire dai sentieri battuti, si aumenterebbe il rischio d’incidente e di morti. La presenza militare italiana contribuirà a trasformare il deserto del Teneré nell’ennesimo cimitero a cielo aperto alle nostre frontiere.
Infine la Tunisia in un fantomatico quadro d’intervento Nato, con cui sembra non esserci stata nessuna discussione: l’interesse di inviare 60 uomini è legata alle partenze dei barconi e al recente aumento di arrivi, con relative espulsioni sistematiche.
Un aumento delle spese militari giustificato quindi dalla necessità di prevedere le missioni di esternalizzazione del controllo delle frontiere, in Niger e Libia che si traduce nel contrasto della migrazione nel deserto e in mare.
Hanno archiviato in fretta la legislatura per impedire l’approvazione dello ius soli e invece poi sono andati di corsa, anche a Camere sciolte, per approvare l’aumento della presenza militare per contrastare immigrazione.
Noi a tutto questo abbiamo detto no, ci siamo opposti con una nostra risoluzione all’interventismo militare contro i migranti, per affermare le ragioni della cooperazione e della pace e scongiurare una missione militare che dietro la retorica del contrasto all’immigrazione nasconde interessi neocoloniali che rischiano di trascinare l’Italia in una nuova stagione di conflitti nello scacchiere africano.

martedì 16 gennaio 2018

Il lavoro al centro del nostro programma

L‘Italia, dopo dieci anni di recessione, è un Paese più povero, ma soprattutto molto più diseguale.
Sono infatti aumentate le distanze fra i redditi più alti e quelli più bassi, e addirittura esplose quelle tra i più ricchi e i più poveri.
Questo è lo scandalo a cui porre rimedio, oltre che una delle cause principali di una crescita debole e disomogenea.
La forte concentrazione della ricchezza in poche mani alimenta la rendita e riduce gli investimenti pubblici e privati, con conseguenze negative su produttività e qualità delle infrastrutture.
La via maestra per la redistribuzione della ricchezza è quella della piena e buona occupazione, da garantire attraverso un piano straordinario per il lavoro e gli investimenti, che inverta radicalmente una politica economica fondata su bonus e sconti fiscali.
Proponiamo un Green New Deal, un piano coordinato di interventi che apra la strada alla riconversione ecologica dell’economia e insieme garantisca un forte saldo attivo sul piano occupazionale.
I settori prioritari su cui articolare questo piano sono: messa in sicurezza del territorio, delle scuole, degli ospedali, degli edifici pubblici e delle abitazioni; energie alternative, risorse idriche, istruzione, sanità, trasporto pubblico, tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ricerca. Sono tutti investimenti ad alto moltiplicatore, cioè in grado di generare una crescita economica, e quindi una occupazione, molto più elevata rispetto agli sgravi fiscali o ai trasferimenti monetari.

Crediamo sia inoltre indispensabile tornare ad investire sul lavoro pubblico, con lo sblocco del turnover nella pubblica amministrazione, a partire dai comparti di sanità, scuola, università, servizi sociali e sicurezza, e dalla stabilizzazione di situazioni di precarietà ormai croniche. Bisogna assumere personale giovane e con le competenze di cui la Pubblica Amministrazione oggi è più carente.
L’obiettivo della piena occupazione deve congiungersi con quello della dignità e dei diritti del lavoro.

Da troppi anni il ricatto della precarietà ha eroso la civiltà del lavoro, indebolendo il sindacato e portando i salari a livelli tanto bassi da essere nocivi per la stessa crescita dell’economia.
È quindi necessario intervenire con decisione, superando il Jobs Act e tutte le forme contrattuali che alimentano il peggiore sfruttamento.

La nostra proposta è tornare a considerare il contratto a tempo indeterminato a piene tutele, con il ripristino dell’art.18 (che oggi continua a valere solo per gli assunti prima del Jobs Act e per i dipendenti prubblici), come la forma normale di assunzione.
Ad esso possono affiancarsi il contratto a tempo determinato e il lavoro in somministrazione, esclusivamente con il ripristino della causale, che giustifichi la necessità di un’assunzione a scadenza.

Va superata, di conseguenza, la giungla di forme contrattuali precarie introdotte nell’ultimo ventennio, che decreto Poletti e Jobs act hanno contribuito a rafforzare.
Occorre invece disciplinare, nell’ottica di tutela del lavoratore, le nuove forme di lavoro, come quelle con le piattaforme, per le quali manca un inquadramento giuridico certo, perché stanno potenzialmente a cavallo fra il lavoro subordinato e quello autonomo.
Va comunque affermato il principio per cui nessuna forma di prestazione può essere svolta in modo gratuito o sottopagata rispetto a quanto previsto dai contratti nazionali.

Proponiamo inoltre di:
contrastare la diffusione di falsi contratti part-time, che dissimulano impieghi effettivamente a tempo pieno;
elevare il costo orario degli straordinari;
riformare la normativa sull’assegnazione degli appalti, per impedire la possibilità di competere sul costo del lavoro, prevedendo la parità del trattamento economico e normativo tra lavoratori occupati dall’appaltante e lavoratori occupati dall’appaltatore;
contrastare le cooperative spurie e, in generale, le false imprese utilizzate per finte esternalizzazioni di manodopera al fine di aggirare norme contrattuali e mettere in atto evasioni fiscali e contributive;
garantire sempre la piena responsabilità solidale del committente, relativamente a salari e contributi e la clausola sociale in ogni evenienza di cambio d’appalto;
rafforzare strumenti e risorse dell’ispettorato del lavoro;
approvare una legge sulla democrazia sindacale, che assicuri valore solo ai contratti firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi e approvati dai lavoratori e dalle lavoratrici.
Vogliamo porre un’attenzione prioritaria al tema dell’occupazione femminile e delle sue condizioni.
Il divario fra le opportunità e i livelli salariali di uomini e donne è infatti troppo vasto per essere accettato e incide negativamente sulla performance complessiva del paese. Si può iniziare a contrastare il gap salariale introducendo una normativa che obblighi alla trasparenza (tutelando i dati sensibili) delle differenze salariali tra generi e che escluda dagli appalti pubblici quelle aziende che non la rispettano.

Proponiamo inoltre:
  • lo sviluppo della conciliazione tra lavoro e vita familiare, con misure strutturali di sostegno alla genitorialità che superino i vari bonus previsti attualmente;
  • un piano straordinario di investimenti per estendere a tutto il territorio nazionale la possibilità di accedere ad asili nido;
  • l’incentivo a forme di lavoro caratterizzate da flessibilità di orario (es. banche del tempo) e luogo (lavoro a distanza, smart work) sia per le madri che per i padri;
  • l’estensione dei congedi: con aumento della durata del congedo paterno obbligatorio e una maggiore copertura economica del congedo parentale, per evitare che, nel dover scegliere a quale salario rinunciare, le coppie siano costrette a optare per quello femminile, spesso inferiore a quello maschile;
  • misure a favore dell’imprenditoria femminile;
  • interventi in materia pensionistica con la proroga di “Opzione donna” oltre il 2018.

Una nuova attenzione va dedicata al lavoro autonomo e professionale, per introdurre tutele reali che invertano il processo di impoverimento di massa che lo ha accompagnato negli anni della crisi.
Proponiamo:

  • la predisposizione di schemi contrattuali con i clienti committenti;
  • un sistema sanzionatorio che scoraggi il ricorso a clausole e condotte abusive
  • un equo compenso generalizzato e proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto
  • un codice di condotta che regoli i rapporti tra committenti e lavoratori autonomi
  • la previsione di tutele in caso di maternità, inattività, cessazione temporanea, invalidità o infortunio, anche attraverso l’incentivazione a forme volontarie di mutualismo fra lavoratori autonomi.

Da troppi anni le lavoratrici e i lavoratori italiani sentono di non avere alcuna difesa contro gli effetti peggiori della globalizzazione.
È il momento di proteggerli e per questo proponiamo:

  • l’applicazione a tutti i lavoratori e le lavoratrici che operano sul territorio nazionale del CCNL appropriato, senza alcuna possibilità di deroga;
  • impegno a livello europeo per la correzione della direttiva Bolkenstein e di quella sui servizi professionali, per garantire che attività come i call center debbano essere svolte nel paese dove opera l’impresa committente;
  • sanzioni per le imprese che delocalizzano gli impianti avendo ottenuto agevolazioni, detassazioni e contributi pubblici, a partire dalla integrale restituzione di ogni singolo euro ricevuto;
  • iniziativa a livello europeo per introdurre dazi nei confronti delle imprese extra-UE che non rispettino standard adeguati per la tutela del lavoro, dell’ambiente e della sicurezza alimentare;
  • la messa in discussione degli accordi internazionali CETA e TTIP, che antepongono la finalità del libero scambio alla tutela dei consumatori e dei diritti dei lavoratori, fino ad attribuire alle multinazionali la possibilità di citare in giudizio i poteri legislativi pubblici davanti ad arbitrati privati.

Crediamo inoltre che si debba introdurre un limite alla disparità fra salari e stipendi medi dei lavoratori e compensi dei manager.
Questo è stato fatto in parte nel settore pubblico, ma va esteso al settore privato, con particolare attenzione al segmento finanziario, come da previsione comunitaria.
In particolare si deve prevedere la non deducibilità delle retribuzioni in eccesso e l’esclusione dalle gare pubbliche e dalle concessioni per le imprese che non rispettino gli standard.
Vogliamo inoltre che i premi dei dirigenti siano ancorati a obiettivi di lungo periodo e comunque siano ricompresi all’interno dei limiti complessivi.

In un’epoca segnata da grandi progressi sul piano dell’automazione e della robotizzazione riteniamo ineludibile il tema della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
I benefici derivanti dalla maggiore produttività devono essere un patrimonio collettivo e non un extraprofitto per le imprese.
Prevediamo un sistema di incentivi per le imprese che aumentino il numero di occupati riducendo il numero delle ore per addetto.


Tutto ciò deve avvenire riaprendo il metodo virtuoso del confronto autentico con le parti sociali, riconoscendo il ruolo dei sindacati, anche attraverso una legge sulla rappresentanza, e dialogando con le forme civiche di autogoverno, le reti del volontariato e i movimenti dei consumatori. Non si governa un paese moderno senza ascolto e dialogo. Se non si pratica un’intermediazione pubblica e trasparente, si finisce col praticarne una opaca e privata. Esattamente quello che è accaduto in questi anni.

domenica 14 gennaio 2018

Il lavoro. Quello buono

Il ricatto della precarietà ​ha minato dalle fondamenta un’idea di società in cui ciascun individuo possa sentirsi realizzato, esponendo i lavoratori a un mercato sempre più feroce e portando i salari a livelli tanto bassi da essere nocivi per la stessa crescita dell’economia. Dobbiamo cancellare il Jobs Act e la giungla di forme contrattuali precarie che alimentano il peggiore sfruttamento, introducendo come forma prevalente il contratto a tempo indeterminato, che preveda tutele crescenti articolate in tre diverse fasi del percorso di formazione e stabilizzazione del lavoratore. Un periodo di prova, della durata massima 8 di tre mesi, un periodo di allineamento professionale e infine, entro tre anni dall'attivazione, la fase di stabilizzazione a seguito della quale il recesso potrà avvenire solo in caso di giusta causa e giustificato motivo, con l’applicazione delle tutele piene in caso di licenziamento illegittimo. Ogni forma contrattuale precaria residuale deve essere più costosa per l’impresa rispetto al lavoro stabile. Tutto ciò consente anche la reintroduzione delle tutele eliminate dal Jobs Act. Tutto questo, però, non fermerà la quarta rivoluzione industriale dove le intelligenze artificiali spazzeranno via interi settori professionali. Conoscere e capire le nuove frontiere e le potenzialità dell’information technology servirà a gestire questo passaggio epocale e trasformare molte delle minacce in nuove opportunità. Ma soprattutto vogliamo creare nuovo lavoro, impegnandoci a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese

mercoledì 10 gennaio 2018

Città accessibili a tutti (Idee per un programma condiviso)

In Italia quasi il 70% degli spostamenti utilizzano l’automobile a fronte del 60% della media europea. Gli investimenti pubblici nel settore trasportistico devono essere indirizzati a finanziare prioritariamente la manutenzione della rete ferroviaria esistente e ad incrementare il trasporto pubblico, per rendere ogni luogo più accessibile a tutti. Perché l’accessibilità alla città riduce le diseguaglianze che colpiscono particolarmente coloro che si trovano in condizioni di disabilità, non solo motoria. Quindi una città costruita per tutti i tipi di utenti, compresi gli anziani che non guidano più la macchina e le donne, che con carrozzine e borse della spesa non possono facilmente accedere al mezzo di trasporto pubblico, rivoluziona il modello della città contemporanea. Dobbiamo costruire una nuova cultura urbana che produca un modello alternativo di città: democratica e antagonista nella forma e nella fruizione dei suoi spazi, che sostituisca i parametri stereometrici con nuovi indicatori ecologici e sociali, dove le funzioni primarie dell’abitare si trovino in un contesto di prossimità, che riduca le barriere, costruisca percorsi pedonali e ciclabili “dando a ciascuno il suo passo”.

domenica 7 gennaio 2018

CRITERI DELLE CANDIDATURE

Dobbiamo portare in Parlamento le donne e gli uomini migliori. Per questo vogliamo darci dei criteri e continuare quel percorso democratico che ha già preso vita sui territori.
Ai fini della più ampia partecipazione e del rinnovamento della politica, Liberi e Uguali nei giorni 8 e 9 gennaio organizza assemblee aperte ai cittadini per la selezione delle candidature al Parlamento nazionale per le elezioni politiche del 2018. Le assemblee saranno presiedute da un rappresentante per ciascun movimento fondatore e da un rappresentante del coordinamento organizzativo nazionale. Sarà compito della presidenza assicurare un regolare svolgimento dell’assemblea; compito del rappresentante, insieme alla presidenza, trasmettere le rose nominative di candidature senza indicazioni di graduatoria.
Le rose dovranno ispirarsi ai criteri generali per la formazione delle liste di Liberi e Uguali:
a. essere aperte, rappresentative dell’articolazione sociale e culturale del Paese;
b. promuovere nell’equilibrio di genere le competenze di donne e di uomini;
c. garantire il pluralismo politico e culturale che anima la formazione di LeU;
d. valorizzare il ruolo dei territori nel rispetto del carattere nazionale di LeU;
Possono essere inseriti nelle rose di candidatura le cittadine e i cittadini in possesso dei requisiti di candidabilitá previsti dalla legge e che si dichiarino elettrici e elettori di Liberi e Uguali.
Non possono essere candidati:
a. coloro che ricoprono incarichi elettivi incompatibili col mandato parlamentare, salvo limitate e motivate eccezioni;
b. coloro che hanno ricoperto la carica di parlamentare nazionale per la durata di due legislature complete, salvo un numero limitato e motivato di deroghe;
Non possono essere candidati ad ogni tipo di elezione coloro nei cui confronti, al momento della selezione delle candidature e fino all’accettazione della stessa, sia stato emesso:
- per reati di mafia, terrorismo, criminalità organizzata, contro la libertà personale e individuale:
a. decreto che dispone il giudizio;
b. misura cautelare personale confermata in sede di impugnazione;
c. misure di prevenzione personali o patrimoniali, ancorché non definitive, previste dal Codice antimafia;
d. sentenza di condanna, ancorché non definitiva, o di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’art. 444 C.P.P.
- per delitti per cui sia previsto l’arresto obbligatorio in flagranza; delitti contro l’incolumità pubblica Capo I e II; delitti contro l’ambiente; delitti contro la libertà sessuale; peculato, concussione, corruzione in tutte le forme previste:
a. sentenza di condanna, ancorché non definitiva, o di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’art. 444 C.P.P.
Le condizioni ostative alla candidatura vengono meno in caso di sentenza di proscioglimento o di intervenuta riabilitazione. Ove tali condizioni dovessero sopravvenire, gli eletti si impegnano a rassegnare le dimissioni.
Verrà istituito un Comitato di Garanzia che valuterà gli elementi di cui sopra e si esprimerà sui casi controversi e non previsti dai precedenti commi, per valutare, sulla base di fatti, circostanze e comportamenti, l’ammissione della candidatura nelle liste di Liberi e Uguali.
All’atto della presentazione della documentazione per la candidatura si dovrà sottoscrivere un’autocertificazione sulla propria posizione rispetto ad eventuali precedenti o pendenze penali, per la valutazione del Comitato sulla gravità o tenuità del fatto e del danno.
Nel comporre le liste, per perseguire quanto previsto nel primo capoverso, si metteranno in atto un numero limitato di pluricandidature.
Le liste saranno approvate dalla presidenza dell’assemblea entro il 22 gennaio, tenendo conto delle rose di candidature emerse dalle assemblee regionali di Liberi e Uguali.


sabato 6 gennaio 2018

La rivoluzione ambientale (Idee per un programma condiviso)

 L’agricoltura è uno strumento di salvaguardia del territorio e della biodiversità, di lotta alla povertà alimentare e ai cambiamenti climatici. Deve essere indirizzata verso le pratiche dell’agricoltura biologica, in particolare quella locale, connessa con la stagionalità delle produzioni e con l’identità culturale di un territorio, altrimenti può rivelarsi uno dei fattori responsabili delle emissioni di gas serra, dell’inquinamento di acque e terreni, oltre ad essere un grande mercato per l’industria chimica.
Il costo economico del consumo di suolo in Italia è compreso fra i 600 e i 900 milioni di € l’anno e la diminuita produzione agricola incide per il 40%. Ininterrottamente, dal dopoguerra ad oggi, l’urbanizzazione ha invaso la campagna. Vogliamo invertire questo processo speculativo e la campagna deve invadere le città penetrando con orti, boschi, giardini, spazi coltivati nelle aree rimaste libere nei centri urbanizzati. La rivoluzione ambientale si fonda sul passaggio dall’economia lineare a quella circolare che punta alla scomparsa del concetto stesso di “rifiuto”, alla riduzione dei consumi energetici e delle risorse non rinnovabili, alla conversione verso la totale decarbonizzazione, investendo in programmi di efficientamento energetico, energie rinnovabili, smettendo di finanziare (con 16 miliardi all’anno) chi produce effetti dannosi per l’ambiente. Costruire democrazia energetica vuol dire passare alle fonti rinnovabili ma, soprattutto, operare una concorrenza diffusa ai grandi player: i cittadini e le comunità devono riappropriarsi di un settore strategico come quello energetico.


venerdì 5 gennaio 2018

La Riconversione ecologica è la vera sfida per le Città (Idee per un programma condiviso)

Il problema strategico dei cambiamenti climatici che sta diventando irreversibile è causato da un modello antropocentrico che ha guidato scelte economiche miopi senza curarsi delle catastrofi da queste prodotte
In Italia ogni anno le morti causate dall’inquinamento atmosferico sono 91mila, più che in ogni altro paese d’Europa.
Basta qualche domenica senza macchine? Oppure occorrono interventi strutturali che attraverso la revisione degli strumenti urbanistici propongano una nuova visione di città, che respinga la mercificazione del Bene Suolo e della sua impermeabilizzazione, che danneggia la salute, favorisce le mutazioni climatiche e le isole di calore e crea una città asocializzata.
L’urbanistica è una disciplina che deve diventare di utilità sociale. Ora non lo è. E’ ancora come sempre al servizio della rendita urbana che guida i processi di trasformazione e le scelte di pianificazione usando lo scudo di termini devianti come i “diritti edificatori” e limiti (infondati) alla possibilità di ridurre l’edificabilità dei suoli.
Negli strumenti urbanistici le capacità edificatorie sono spesso sovradimensionate rispetto alla crescita (o meglio decrescita) della popolazione, Pertanto solo attraverso varianti urbanistiche che riducano le capacità edificatorie dei Piani, è possibile limitare il Consumo di suolo che i PRG in vigore legittimamente consentono; così da assicurare la permeabilità dei terreni e l’incremento delle aree verdi boscate che riducono l’inquinamento atmosferico e aumentano la resilienza.
Le nuove disposizioni normative dovranno dirlo a chiare lettere per sciogliere comodi equivoci.


mercoledì 3 gennaio 2018

Fermare il consumo del suolo, tassare la rendita (Idee per un programma condiviso)

Il consumo di suolo in Italia è al 7%, la media europea al 4,3%, Veneto e Lombardia superano il 12%.
“L’impermeabilizzazione rappresenta la principale causa di degrado del suolo in Europa, in quanto comporta un rischio accresciuto di inondazioni, contribuisce ai cambiamenti climatici, minaccia la biodiversità, provoca la perdita di terreni agricoli fertili e aree naturali, contribuisce insieme allo sprawl urbano, alla progressiva e sistematica distruzione del paesaggio, soprattutto rurale” (Commissione Europea 2012). “Le funzioni produttive dei suoli sono, pertanto, inevitabilmente perse, così come la loro possibilità di assorbire CO2, di fornire supporto e sostentamento per la componente biotica dell’ecosistema, di garantire la biodiversità e la fruizione sociale” (rapporto ISPRA 2017).
Ogni anno in Europa è stimato che un’area pari a circa 1.000 km2, più o meno equivalente alla superficie di una città come Berlino, viene definitivamente persa in seguito alla costruzione di nuove infrastrutture e reti viarie (Commissione Europea, 2011).
Nella colpevole assenza di una Legge Nazionale (quella approvata dalla Camera è un abominio che molte Regioni hanno già preso come riferimento) la maggior parte delle Leggi Regionali favoriscono il consumo di suolo indirizzandolo verso i centri urbani, dove l’impermeabilizzazione del terreno crea, anche in presenza di precipitazioni meteoriche non eccezionali, gravi danni a persone e cose e la cementificazione degli spazi liberi rende le città invivibili (il 54% del consumo di suolo avviene all’interno delle aree urbanizzate dove le Leggi regionali non lo conteggiato come suolo consumato)
La rendita non trova più remunerazione nel costruire in aree agricole o marginali, dove capannoni vuoti e intere lottizzazioni restano invendute, quindi indirizza i capitali dove più elevata è la redditività dell’investimento.
Ma i vuoti urbani sono un elemento prezioso nel tessuto consolidato della città.
Servono alla vita sociale e collettiva, alle manifestazioni di piazza, al gioco dei bambini, al mantenimento degli ecosistemi urbani e dei corridoi ecologici.
Le analisi degli economisti, anche di sinistra, raramente mettono nella giusta evidenza il ruolo che ha la rendita urbana nell’economia del Paese, nelle crisi finanziarie, nei dissesti delle banche, nel riciclaggio del denaro sporco, che trova la sua collocazione privilegiata nelle operazioni immobiliari che la finanziarizzazione delle imprese ha favorito. Una esclusione che oscura i danni che la rendita urbana provoca alla nostra economia e all’ambiente e che non fornisce una chiave di lettura per rispondere alla domanda: “ma perché alla presenza di tanti capannoni e case vuote, si costruisce ancora?” perdendo 3 mq di suolo permeabile al minuto, danneggiando le città, il paesaggio e il clima. “La tendenza degli ultimi anni vede l’incremento significativo di un processo, guidato prevalentemente dalla rendita urbana, di progressiva densificazione e saturazione degli spazi agricoli e naturali e di tutti quei “vuoti urbani” rimasti all’interno delle città, che sono essenziali per la qualità della vita dei cittadini, dell’ambiente e del paesaggio”.(Munafò ISPRA)
La rendita va combattuta e va applicata una “tassa di scopo” sull’incremento di valore dei terreni prodotto da una variante urbanistica.
E al contrario di ciò che propongono la maggior parte delle Leggi regionali in vigore, gli oneri di urbanizzazione e i costi di costruzione devono essere maggiori nei centri urbani, perché lì le opere pubbliche, che producono un incremento del valore degli immobili, sono già state costruite con il denaro dei cittadini.
I proventi degli oneri devono essere destinati esclusivamente all’ambiente, al verde e alla manutenzione del territorio
La riconversione urbana senza consumo di suolo produce maggiori posti di lavoro e favorisce le imprese locali che non sono in grado di accedere agli appalti delle grandi opere (che creano un forte impatto ambientale. In Italia le infrastrutture a rete rappresentano il 40% del suolo consumato), le maestranze ricche di esperienza e di antichi saperi, che operano nei restauri degli immobili di pregio, nella ristrutturazione statica degli edifici (che dovrebbe cominciare dalle scuole e dai monumenti), nella loro riqualificazione energetica. Buone politiche nell’uso di fonti energetiche rinnovabili e di riconversione ecologica degli edifici attraverso pratiche innovative costituirebbe un rilancio del settore edile, quello che ha subito il più forte attacco dalla crisi e che in 8 anni ha visto la perdita del 50% dei posti lavoro,
Gli standard urbanistici previsti nel PRG, che per la sentenza della Corte Costituzionale decadono dopo 5 anni dalla loro applicazione “restano sulla carta”, mentre lo strumento della perequazione dovrebbe assicurarne la realizzazione, in modo che accanto alla Città Privata si realizzi anche la Città Pubblica. Proponiamo che con la decadenza degli standard urbanistici decadano anche le capacità edificatorie previste nei PRG, per non creare città mostro fatte solo di cemento-


martedì 2 gennaio 2018

II territorio è un Bene Comune e come tale appartiene alla collettività (Idee per un programma condiviso)

La vendita del patrimonio pubblico di valore paesaggistico, monumentale e documentale che ci è stato lasciato in eredità dalla natura e dall'uomo, di cui dobbiamo prenderci cura per poterlo trasferire a chi verrà dopo di noi, è un furto alla collettività, così come la privatizzazione dell’acqua e altri Beni Comuni.

La cura del territorio e la prevenzione dai rischi, è l’opera pubblica prioritaria per il Paese
Preservare le grandi ricchezze italiane, il paesaggio, le bellezze naturali e quelle costruite dall'uomo in secoli di storia è un dovere culturale e politico. Oggi 33.000 ettari di suolo consumato ricadono all'interno delle aree protette. Difendere dai rischi sismici e idrogeologici e dall'incuria, il nostro inestimabile patrimonio storico artistico, fatto di singoli monumenti e di borghi antichi, rappresenta il più grande e produttivo investimento che può fare l’Italia.
Ma per preservarlo occorre un incremento delle risorse finanziarie necessarie per attivare una programmazione finalizzata alla conoscenza, alla messa in sicurezza e al restauro del patrimonio culturale, una maggiore e incisiva presenza sul territorio degli organi di tutela in grado di operare con intervento diretto nella tutela e nel restauro.
Ma con la “riforma Madia” le Soprintendenze vengono depotenziate e messe funzionalmente alle dipendenze del Prefetto. Con questa scelta insieme alla riforma del Ministero dei beni culturali nell'ottica della “valorizzazione” staccata dalla “tutela”si accorpano le già deboli soprintendenze (archeologia con belle arti con paesaggio) depotenziandone di fatto l’autonomia culturale e l’indipendenza.
Anche le conferenze dei servizi, necessarie per istruire progetti complessi, vengono riformate: ora le decisioni vengono prese a maggioranza. Il parere della Soprintendenza può quindi essere ignorato mentre prima era obbligatorio e vincolante .
Contro la “disarticolazione delle istituzioni di tutela” proponiamo:

  • l’abolizione della “legge Madia” per le parti riguardanti soprintendenze e conferenze dei servizi,
  • l’abolizione della riforma del MIBACT in cui si accorpano le sovrintendenze e si rafforza la pericolosa separazione tra tutela (quasi annullata) e valorizzazione (trasformata in mercificazione)

Il pensiero neoliberista che ha contaminato la cultura anche di sinistra, ha ridotto le città ad una merce e le risorse naturali e paesaggistiche terreno di conquista della speculazione edilizia. Non a caso la crisi mondiale che ci attanaglia è nata proprio con lo scoppio della bolla immobiliare, troppo rapidamente e volutamente rimossa perché la sua analisi imporrebbe una revisione del modello di sviluppo che ha affidato alla rendita e non alla ricerca e all’innovazione, ingenti capitali con la complicità delle banche che ancora guidano e sostengono operazioni immobiliari senza futuro ma che servono a giustificare i loro bilanci. (nel I trimestre del 2016, sul totale dei finanziamenti concessi dalle banche e non rimborsati dalle imprese, oltre il 40% è legato alle imprese/immobiliari che pesano per oltre il 27% sui crediti deteriorati)

lunedì 1 gennaio 2018

La buona urbanistica può ridurre le diseguaglianze costruendo città più eque e solidali (Idee per un programma condiviso)

Una buona urbanistica può ridurre le diseguaglianze costruendo città più eque e solidali. Concorrono a realizzare questo obiettivo: il coinvolgimento dei cittadini nelle scelte urbanistiche, un trasporto pubblico efficiente che renda ogni luogo della città accessibile a tutti, il verde urbano che abbatte l’inquinamento e le malattie polmonari che colpiscono prevalentemente i bambini, il risanamento dei quartieri degradati che si realizza attraverso l’offerta di servizi che concorrono ad una più equa redistribuzione del reddito, la presenza di spazi pubblici che attiva la convivenza, la socialità, rafforza la democrazia urbana, gli alloggi in locazione a prezzi adeguati al reddito che sono in grado di far uscire dalla condizione di povertà milioni di famiglie, l’inserimento dell’ERP fra gli standard urbanistici obbligatori, il divieto di vendita dell’esiguo patrimonio spesso inutilizzato finché non vengano soddisfatte le domande degli aventi diritto ad un alloggio di edilizia residenziale pubblica e quello di migliaia di famiglie colpite dal dramma del procedimento di sfratto per morosità incolpevole in continuo aumento a causa dell’estensione della povertà e della disoccupazione